Pane, riso e tortillas
(L’articolo è preso da Carta chi vuole leggerlo per intero può cliccare sul link http://www.carta.org/2011/05/pane-riso-e-tortillas/)
Le cose hanno sempre un nome e un cognome, che è un modo poetico per dire che le situazioni hanno sempre una causa determinante. Anche i mercati, nonostante decenni di letture a senso unico, tutto sono fuorchè ecosistemi che si evolvono da soli, ma sono conseguenza di scelte assunte da una politica legata a doppia mandata a interessi particolari. Quelli delle élite economiche e finanziarie, variamente articolate.
Sono interessi sganciati da quelli della stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Legittimati dal mantra del «trickling down», del lento ampliamento del benessere che sarebbe sgocciolato dai piani alti dell’economia mondiale sulla testa dei miliardi di poveri cristi che affollano il pianeta. Un mantra che ha creato consenso, troppe volte anche nei piani bassi del palazzo del benessere, sul fatto che liberalizzazione del mercato, privatizzazioni, corsa al profitto sarebbero stati una grande marea capace di alzare i grandi piroscafi come le più esili barchette. L’unica marea crescente, oggi, sono le donne e gli uomini che stanno morendo di fame, che ha superato la soglia psicologica del miliardi di unità meno di due anni fa mettendo di fatto in soffitta le buone intenzioni della comunità internazionale che, nel 2000, decisero di impegnarsi negli Obiettivi del Millennio. Che per buona parte non verranno raggiunti.
Era il settembre del 2000 quando i Governi del mondo si misero d’accordo su otto obiettivi, il primo dei quali era «sradicare la povertà estrema e la fame». Passarono solo pochi mesi, e il 14 dicembre dello stesso anno, un Bill Clinton pronto a passare il testimone a George Bush, mise la sua firma al Commodity Futures Modernization Act [Cfma] che ha permesso, de facto, l’entrata dei grandi fondi di investimento sui mercati delle commodities, soprattutto agricole. Il Cfma seguì di un anno l’abrogazione di un’altra legge, il Glass-Steagall Act, che separava nettamente le banche commerciali dalle banche d’investimento. Un modo per evitare che i soldi dei risparmiatori potessero essere utilizzati per speculazioni o investimenti a rischio. Due scelte politiche, dettate dall’idea che la crescita e l’ampliamento del mercato su ogni bene esistente, compresi i beni comuni come quelli agricoli, sarebbe stata l’inevitabile conseguenza di un mondo ormai senza storia.
Ma la conseguenza di tutto questo è stata una valanga di migliaia di miliardi di dollari sui futures. Contratti che, paradossalmente, erano nati per proteggere produttori e acquirenti di beni agricoli dalla volatilità intrinseca dei prezzi sul mercato, ma che sono a loro volta diventati merce di scambio per grandi banche di investimento che utilizzano le loro riserve finanziarie per speculare sull’andamento del prezzo delle materie prime agricole, che in alcuni casi sono arrivati a raddoppiare il proprio prezzo dalle quotazioni del 2007, basti pensare che all’inizio del 2011 il prezzo del riso è cresciuto del 217 per cento, del grano del 136 per cento e della soia del 107 per cento. E nell’arco di pochi mesi sono ricrollati alle quotazioni più basse dal 2006, in modo altalenante ed imprevedibile.
Considerato il tempo di trasmissione dei prezzi lungo le filiere e il potere di mercato dei grandi trader, queste cifre significano comunque prezzi alti per i beni di prima necessità, dal riso al pane alle tortillas che continueranno a colpire le classi più povere e disagiate delle periferie di città e megalopoli. Se la percentuale di budget familiare impegnato in acquisti alimentari può arrivare addirittura al 60-70 per cento del totale, possiamo immaginare cosa può significare un ulteriore aumento dei prezzi. La cui crescita non necessariamente raggiunge i piccoli produttori, stretti come sono tra l’aumento del prezzo del petrolio [e quindi dei trasporti], degli additivi [spesso chimici] e i pagamenti miserrimi degli intermediari e dei trader – tra cui anche la Grande distribuzione – che usa tutto il suo potere di mercato per controllare le filiere. E per imporre quindi i prezzi al produttore ed al consumatore.
E alla speculazione internazionale, su agricoltura e petrolio, aggiungiamo anche gli effetti della liberalizzazione dei mercati che, se fortunatamente è ancora in stallo nelle stanze ginevrine della Wto, rischia di consolidarsi con i vari accordi bilaterali che i diversi Paesi stanno firmando in questi ultimi anni. Riso indiano che si importa in Mali, a basso costo. Soia brasiliana che si importa in Indonesia. E tutto con impatti non di poco conto sui piccoli produttori locali, che non riescono a competere con i giganti dell’agrobusiness mondiale.
E che non riescono a reggere l’alta volatilità dei prezzi, che impedisce loro di programmare adeguatamente semine e raccolti. E’ Coldiretti che ci spiega come le quotazioni del grano negli ultimi tre anni sono crollate da 13 dollari per bushel del febbraio 2008 ad appena 5 dollari per bushel del febbraio 2009, a 6 dollari per bushel del febbraio 2010 per poi risalire fino agli 7,5 dollari per bushel attuali [20 centesimi al chilo]. Le conseguenze di questo disastro le vediamo nella sponda sud del Mediterraneo, e si chiamano Algeria, Siria, Egitto, Bahrein. Sono i movimenti popolari che nonostante stiano arrivando a rivendicare le libertà civili sono partiti anche dalle condizioni sociali pesanti che devono sopportare: alta disoccupazione, prezzi dei beni alimentari in aumento.
Alla base di tutto questo ci sono state scelte politiche, chiare e determinare. Deregolamentare, liberare i mercati, lasciare carta bianca alla speculazione, garantendo anche una grande quantità di denaro facile per sostenere gli scambi borsistici. E’ di fronte a tutto questo che serve una reazione chiara per invertire la rotta, da parte della politica in primis e di tutta la società civile. Mobilitarsi per chiedere regole, per fare pressione e per tornare ad essere protagonisti del cambiamento. Le buone pratiche, dalla finanza etica al commercio equo, sono sicuramente un’opzione necessaria per dimostrare la sostenibilità dell’alternativa ma, ora più che mai, sono diventate insufficienti.