14 dicembre 1949 – Un ricordo di terra e di Donne

Nel dicembre del 1949 si registrano occupazioni di terre in tutto il Mezzogiorno. In un piccolo centro della Basilicata sono le lavoratrici della terra, le mogli e le figlie dei braccianti a guidare la rivolta contro i latifondisti.

Alle lotte per la terra del secondo dopoguerra nel Mezzogiorno parteciparono migliaia di donne, spesso portando con sé i figli più piccoli. Anche in Basilicata, dagli episodi del 1943-44 a quelli, spesso sanguinosi, del 1949, le mogli e le figlie dei braccianti, lavoratrici della terra esse stesse, diedero un apporto determinante, come dimostrano i fatti che ci accingiamo a narrare, mettendo in luce singole figure che ebbero un ruolo da protagoniste in quelle lotte. E fu anche la presenza di tante donne a indurre la senatrice comunista Adele Bei, “reduce dai fatti di Calabria”, a fermarsi in provincia di Matera nel novembre del 1949, come si evince da un rapporto dei carabinieri di Matera al Prefetto della città. Dopo la sua partenza si registrarono occupazioni di terreni a Garaguso, Calciano, Grottole, Irsina, Pisticci, Miglionico, Montescaglioso, Ferrandina e Matera.

Ma è soprattutto nelle vicende di Montescaglioso che appaiono significative figure di donne promotrici dei moti bracciantili. Da quel centro del Materano agli inizi di dicembre del 1949 partirono, infatti, folti gruppi di braccianti e contadini per occupare i latifondi Lacava. Secondo i rapporti dei carabinieri tra gli organizzatori figuravano due donne: Anna Avena e Nunzia Suglia. Anche Marianna Menzano era a capo del movimento bracciantile. Così ricordò l’inizio della lotta:

«Per trentasei giorni consecutivi andammo sulle terre. Quando tornavamo la sera dalla campagna facevamo il giro della villa comunale e poi riunione in piazza grande. La miseria era tanta ed i terreni erano tutti nelle mani dei grossi agrari che chiamati in Comune si erano rifiutati di concedere un po’ di terra ai reduci e ai combattenti tornati a casa. Così incominciammo la grande lotta per la terra a Montescaglioso».

E anche con l’intervento della polizia e dei carabinieri le donne non si spaventarono e presero l’iniziativa. Così la stessa Marianna Menzano: «Noi donne quel giorno non eravamo con i nostri uomini. Una donna venne a dirmi concitata che la polizia era andata in campagna per arrestare gli occupanti. Andiamo – dissi – prendete anche i bambini. Una marea umana in poco tempo, bambini avanti e donne dietro, circondò la masseria e non facemmo passare le camionette dei carabinieri».

Alcuni giorni dopo, alle due del mattino del 14 dicembre, dopo aver interrotto l’erogazione di elettricità, i carabinieri del battaglione mobile di Bari penetrarono a Montescaglioso. Casa per casa iniziarono le perquisizioni svegliando di soprassalto uomini, donne e bambini, ancora immersi nel sonno.

Tra le case violate con inusitata violenza anche quella di Nunzia Suglia. Così raccontò l’episodio Alberto Jacoviello, inviato de “L’Unità”: «Sfondata la porta sono penetrati in cinque con i mitra spianati nel buio della stanza, intimando alla donna di seguirli. I figli allora, svegliati nel sonno ad uno ad uno brancolando nel buio sono scesi dal letto e hanno cercato di fare scudo alla madre che dal canto suo pregava i carabinieri di uscire per darle modo di vestirsi. Ma i carabinieri le intimarono di vestirsi in loro presenza e al tempo stesso cercavano di allontanare i figli da lei. Poi, mentre la donna era ancora seminuda, strappandola a viva forza dalle mani dei figli, se la sono portata via. Nessuno ha più potuto trattenere allora quelle creature, che si sono messe ad urlare. E alle loro grida facevano eco altre altissime grida dei figli degli altri contadini che venivano arrestati con gli stessi brutali procedimenti».

E’ stato il giornalista Rocco De Rosa a descrivere minuziosamente,attraverso il racconto dei protagonisti, quella notte, una notte interminabile anche per le donne che furono coinvolte in quegli episodi. Nunzia venne condotta ai camion che stazionavano, custoditi da giovani carabinieri “armati fino ai denti”, alla periferia del paese. Entrando in uno di essi, a malapena coperto con i teloni militari, «a stento riconobbe le altre sue compagne di lotta, ammanettate e sistemate sui sedili di legno come prigioniere. O, meglio, come schiave di un regime totalitario, per il quale la libertà e il lavoro sembravano non avere alcun significato. Nunzia Suglia sentiva nella mente e nelle orecchie i gemiti dei figli, svegliati dai carabinieri nel cuore della notte, e il panico, le urla, i pianti di chi aveva assistito a quello spettacolo atroce. Nunzia viveva con la sua famiglia in una sola stanza, quando la porta d’ingresso si aprì sotto l’incalzare dei calci dei militari e delle spallate. Esattamente come si fa per arrestare dei delinquenti asserragliati nel loro covo. Quella della casa di Nunzia era un’umile porta di legno, fragile come chi vi abitava. Senza molte protezioni. Senza difese».

Vennero arrestate anche Anna Avena e Marianna Menzano: «Marianna era una delle maggiori attiviste del movimento, quando ogni giorno e ogni notte c’erano riunioni per discutere sul da farsi, delle terre da occupare e da lavorare, sotto gli occhi onnipresenti di polizia e carabinieri. Lei aveva sempre un’idea da proporre, un suggerimento da dare. Una scelta da indicare come indispensabile in quel groviglio di situazioni che si accumulavano, di fronte alle quali occorreva una calma e una freddezza che nessuno al suo posto sarebbe stato in grado di avere in momenti così difficili, quando ciascuno attendeva una parola rassicurante, una soluzione che potesse essere davvero quella giusta. Si trattava di tenersi al riparo dalle pallottole di Scelba che piovevano quando uno meno se l’aspettava, come un castigo del cielo, un’amara punizione per chi lottava per il lavoro e la democrazia».

Così la Menzano raccontò, “praticamente cieca” ma “intelligente, pronta, lucidissima nei suoi ricordi”, quella notte a Rocco De Rosa: «Ricordo tutto. I carabinieri bussarono alla mia porta e mi dissero vieni in caserma. Non ricordo che ora era. Abitavo in via San Giovanni Loventa, una strada vecchia del paese. Siccome c’era mia madre che non stava bene, avevo detto a mio figlio di venirmi a chiamare. Quando ho sentito bussare alla porta, ho pensato che era mio figlio. Non appena ho aperto sono entrati tutti i carabinieri in casa. La casa era piccola. Hanno cominciato a rovistare nel comò, credevano che io avessi le armi, invece hanno trovato dei giocattoli dei bambini. Mi dissero di seguirli in caserma. Io risposi, non vi seguo, vengo domani mattina. E quelli: dovete venire ora un momento in caserma. Allora mi sono vestita. E invece di andare in caserma a Montescaglioso, c’era un camion fermo, dov’è ora la benzina».

Fu a questo punto che in paese scoppiò una sommossa. Pensando che gli arrestati fossero in caserma, la folla radunatasi si incolonnò verso la Camera del Lavoro, chiedendo la liberazione di compagni e familiari. Dal mitra di un vice brigadiere dei carabinieri, Vittorio Conte, vennero esplose varie raffiche che colpirono Michele Oliva, rendendolo invalido, e Giuseppe Novello, poi morto in ospedale. Sul posto un’altra donna, Vincenza Castria, anch’essa tra le organizzatrici delle occupazioni, moglie proprio di Novello, si aggrappò alla divisa del sottufficiale per dissuaderlo, inutilmente, dal proposito di sparare, gridandogli: “Avrai anche tu dei figli, non sparare, non sparare.per carità!”. Ma tutto fu vano. Così raccontò al giornalista De Rosa quei fatti: «Non avevo mai visto sparare, e mi accorsi che il fuoco mi veniva incontro. Si, veniva contro di me e mi meravigliavo di non essere stata ancora colpita e poi mi toccavo le mani, le braccia per vedere se le pallottole fossero entrate dentro di me. Non credevo ai miei occhi e non riuscivo a rendermi conto come mai ero ancora viva. Intanto Giuseppe grondava sangue. Lo portammo a casa e poi, fra mille difficoltà, in ospedale a Matera. Non fu facile neppure soccorrerlo. L’omertà, la paura, il terrore che i carabinieri potessero arrestare i soccorritori era forte. Chi voleva prestare soccorso, chi voleva prodigarsi per dare una mano a una famiglia piombata nella sciagura finiva per tirarsi indietro preso dalla preoccupazione di poter essere notato e magari considerato un complice. Nel trambusto generale non si riusciva a trovare una macchina, un’ambulanza, un mezzo di soccorso. E meno che mai i carabinieri si prodigarono – come pure era loro dovere, questo si imposto dalla legge – per aiutare il ferito e trasportarlo in ospedale. Ognuno cercava di rimediare a quanto era accaduto. Si voleva trovare un alibi a tutti i costi, si studiava il modo come dare la responsabilità ai contadini. A Giuseppe Novello! Ma dopo qualche giorno ogni speranza cadde nel nulla.Ogni luce si spense e tutto mi sembrò tetro, proprio come l’immagine orrenda di quella notte!»

Il 19 dicembre, quando Giorgio Amendola scese a Matera per commemorare Novello, questa combattiva donna salì al tavolo della presidenza, alzando “sul podio degli oratori” il figlio ancora piccolo, Filippo Novello. Da allora Vincenza Castria divenne un’esponente di spicco delle donne comuniste. Passando da una assemblea all’altra, da un congresso di partito all’altro, fu sempre presente nella vita politica del Materano. Nei primi anni ’50 fu sempre lei a tenere le fila dell’UDI di Montescaglioso, forte dell’iscrizione di 400 donne.

Si tenga inoltre presente che quando, il 29 aprile 1950, alla Camera venne discussa l’interrogazione di Michele Bianco al Ministro dell’Interno per sapere se non riteneva “rispondente ad un criterio di umanità e di giustizia” assegnare un adeguato sussidio alla signora Vincenza Castria, vedova del bracciante Giuseppe Novello, deceduto in seguito alle ferite riportate a Montescaglioso il 14 dicembre 1949, “in considerazione anche delle condizioni di estrema miseria” in cui la stessa viveva insieme al figlio di quattro anni, questa fu la risposta di Scelba: «Da informazioni assunte le condizioni della vedova di Giuseppe Novello non risultano quali sopra indicate. Al contrario, dopo la morte del marito, le sue condizioni, per cospicui contributi avuti, sono notevolmente migliorate sì da poter liquidare anche un debito di lire 30.000. Di recente le è stato assegnato un appezzamento di terreno seminato. Per tali motivi non si ravvisa la necessità di un qualsiasi intervento».

Le tre donne arrestate a Montescaglioso, Anna Avena, Marianna Menzano e Nunzia Suglia, passarono in carcere 11 mesi e 4 giorni, un prezzo durissimo per la loro sete di giustizia