La foto è stata scattata da Elvira nella splendida Castelluccio di Norcia giugno 2007
Terra bene comune
1. La terra alla quale si fa qui riferimento è la terra considerata nella sua fisicità, nella sua materialità. E’ la terra destinata all’agricoltura, cioè alla coltivazione dell’ager, e al pascolo di animali domestici e selvatici; è la terra coperta da boschi e foreste e comunque da vegetazione. Terra feconda, fonte di vita e vita essa stessa. E’ anche la terra ritenuta sterile – sabbie e deserti, rocce e spiagge, grotte e cave dismesse – che contiene, essa pure, forme di vita. E’ infine il soprasuolo e il sottosuolo: sopra la terra scorrono, risiedono, si solidificano le acque dolci: fiumi, laghi, paludi, nevi perenni e ghiacciai; sotto la terra albergano falde acquifere e giacimenti minerari. Non si fa invece riferimento alla terra violata, cioè quella edificata, cementificata, infrastrutturata, perché la violazione ha distrutto la vita, l’artificio umano la naturalità.. E neppure al mare perché fin dal libro della Genesi la terra si contrappone al mare e il mare, bene comune, ha proprie leggi.
2. Nella storia umana la terra nasce come bene comune. Terra comune significa terra che include e non esclude: bene al quale tutti possono accedere. La terra comune, proprio perché includente, non comporta dominio né violenza né possesso. La storia ci mostra come all’origine dell’esclusione vi sia sempre un atto di violenza, fisica o normativa: il fratricidio compiuto da Romolo, le conquiste coloniali, le enclosures, le usurpazioni, oggi il land grabbing.
Della violenza originaria nulla è rimasto e neanche delle violenze recenti e attuali resteranno tracce, cancellate inesorabilmente dalle leggi dei potenti. Con la cancellazione delle violenze sembra essersi persa anche la memoria: riusciamo a concepire la terra esclusivamente in termini di appartenenza, di oggetto di diritti da far valere nei confronti degli altri e in particolare del diritto di proprietà, perciò come bene escludente, appunto proprio. In nome della proprietà la terra continua a essere violentemente aggredita: dal processo di urbanizzazione, che si espande inesorabilmente e senza regole se non quelle della rendita e del profitto; dall’intensificazione artificiale delle colture sulle terre più fertili a causa della crescente pressione demografica e consumistica, che comporta degrado e desertificazione; dall’abbandono progressivo delle terre meno fertili, che genera erosione e squilibri idrogeologici aggravati dai mutamenti climatici e che solo in piccola parte, e assai lentamente, dà luogo a rinaturalizzazione.
3. Vi sono nel mondo terre oggetto di diritti collettivi provenienti ab immemorabili: le proprietà collettive. In Italia assumono la forma di usi civici su terre altrui (private o pubbliche), di cui sono titolari i componenti di una comunità (comune o frazione), oppure di demani civici o domini collettivi appartenenti ad antiche comunità (comunanze, partecipanze, regole, università agrarie, ecc.). Frutto di conquista nei confronti del potente (conquistatore, sovrano, signore) o di sua concessione oppure direttamente di occupazione, esse hanno resistito al processo di razionalizzazione individualistica dei diritti sulla terra e sono giunte fino a noi conservando gli antichi caratteri perché considerate economicamente marginali e pertanto non usurpate. Non sono terre comuni – tranne nei casi remoti di collettività isolate – proprio perché riferibili a specifici titolari e perciò escludenti gli altri.
Le proprietà collettive hanno una valenza che trascende il carattere puramente mercantile che quel processo ha impresso alla terra: in esse la terra ha costituito – e ancora in tante parti del pianeta costituisce – lo spazio vitale delle comunità titolari nel loro succedersi storico e nello stesso tempo continua a essere oggetto di una gestione condotta nel segno di una naturale armonia; proprio per questo è stata e ancora oggi è luogo di manifestazione e punto di incidenza dell’insieme dei valori e delle tradizioni di quelle comunità. Laddove le proprietà collettive non svolgono più l’originaria funzione connessa alla sopravvivenza continuano a essere strumento di conservazione di quei valori e conseguentemente dei territori in cui quelle comunità sono insediate: la loro
1persistente vitalità è prova che la terra è bene in grado di soddisfare esigenze non riconducibili a una logica mercantile, siano esse economiche siano ideali, comunque avvertite profondamente dalla coscienza sociale.
Per queste ragioni, pur non essendo terre comuni, tali forme proprietarie rappresentano un modello e nello stesso tempo assolvono a una funzione generale perché la salvezza del nostro pianeta è possibile solo se si diffonde la consapevolezza che la terra non è riducibile a merce.
4. Impetuosamente nel nostro orizzonte culturale e nella cosiddetta agenda politica si sono inseriti in questi anni i beni comuni. L’individuazione, il significato, la portata, il regime giuridico di essi costituiscono questioni assai complesse le cui soluzioni sono strettamente legate al bagaglio ideale e culturale e soprattutto alla capacità intuitiva di chi le affronta. Sul piano giuridico il compito è ancora più difficile perché è necessario interpretare quelle idealità e quelle intuizioni sulla base di strumenti concettuali inevitabilmente ancorati al passato, di cui è importante suggerire la trasformazione, ma che non sempre possono essere superati prima che vengano introdotti nuovi ancoraggi.
Numerose si affastellano le elencazioni: dai beni materiali ai beni immateriali, dai beni naturali ai beni sociali, dal paesaggio al territorio. In Italia la riflessione più significativa, perché destinata a un percorso legislativo, poi interrottosi, è offerta dai lavori della Commissione Rodotà istituita dal Ministro della Giustizia del Governo Prodi nel giugno 2007 con il compito di redigere uno schema di disegno di legge delega per la riforma del codice civile sui beni pubblici. Secondo la Commissione i beni comuni – diversi sia dai beni pubblici che da quelli privati – sono quelli alla cui fruizione e alla cui tutela giurisdizionale ha accesso chiunque e che perciò possono essere qualificati a titolarità diffusa. Vi rientrano, tra gli altri, “i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate”.
La molteplicità dei beni elencati, la loro incomparabilità, la disorganicità delle varie classificazioni dimostrano che si sta lavorando in un’officina in cui il materiale è ancora incandescente. Ma proprio nei lavori de quella Commissione vi è un passo molto importante che fa comprendere il significato e la portata dei beni comuni: essi “esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità”. Consegue da ciò che la loro funzione è legata alla soddisfazione di esigenze riconducibili a diritti fondamentali diversamente dalla funzione dei beni oggetto di proprietà, la quale è legata alla soddisfazione di esigenze riconducibili esclusivamente al contenuto del diritto di proprietà.
I beni comuni sono infatti espressione di una visione diversa: essi sono estranei alla dimensione dell’appartenenza mentre i beni oggetto di proprietà, proprio perché tali, appartengono a un titolare; i primi sono aperti alla fruizione di tutti, i secondi sono chiusi nella fruizione del titolare. In altri termini i beni comuni sfuggono alla categorie dell’appartenenza, della proprietà: se sono comuni non possono essere propri; essi cioè hanno rilevanza non sul piano dell’avere, ma dell’essere: se un bene è comune non significa che esso appartiene a tutti; significa che proprio perché è comune tutti possono accedervi. E’ perciò il diritto di accesso che caratterizza i beni comuni; nello stesso tempo, se tutti hanno diritto di accedervi, tutti hanno anche il dovere di rispettarne l’integrità. Diversamente a caratterizzare la proprietà sono l’esclusione degli altri e il potere di incidere sull’integrità del bene, cioè quella esclusività e quella pienezza di cui alla classica definizione contenuta nell’art. 832 del codice civile italiano .
E’ in ragione di queste diversità che una stessa “cosa” – cioè uno stesso bene materiale – può essere bene comune e nel medesimo tempo oggetto di proprietà: la natura comune di un bene non entra in contraddizione con l’esistenza della proprietà su quello stesso bene e neppure può essere considerata un limite alla sua estensione perché ne disegna a contrario il contenuto. Ciò
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significa che la funzione propria dei beni comuni – soddisfare esigenze considerate diritti fondamentali e costituzionalmente tutelate – determina l’area che non può essere ricondotta al contenuto della proprietà. Così, per fare un solo esempio, i beni culturali e ambientali, tutelati dall’art. 9 della Costituzione, sono beni comuni e in quanto tali non possono essere sottratti al godimento della collettività: non rientra cioè nel contenuto del diritto del proprietario (pubblico o privato) il potere di escludere l’accesso a quei beni.
5. Nell’officina italiana dei beni comuni la terra in quanto tale non compare: terminale di legami profondi ed escludenti (i diritti sulla terra), destinataria di aspirazioni intense e anch’esse escludenti (il diritto alla terra), vi è una sorta di timore a considerarla bene comune. Segno di ricchezza e quindi di potere, la terra è stata l’oggetto paradigmatico del diritto di proprietà: è con riferimento alla terra che il pensiero giuridico moderno ha elaborato la concezione della proprietà caratterizzata dalla pienezza e dalla esclusività. Nello stesso tempo però si avverte una sorta di disagio a concepirla come oggetto di diritti: è significativo che il lemma terra non compaia nei dizionari e nelle enciclopedie giuridiche e che lo stesso legislatore utilizzi per lo più altri termini – terreno, appezzamento, fondo, suolo – quando indica l’oggetto dei diritti. Il disagio è ancora più forte oggi che la speranza del genere umano si lega alla salvezza della terra e che con una sorta di paradosso giuridico si parla di diritti della terra.
La terra come bene comune compare invece laddove più forte è la lotta per la terra: soprattutto in America Latina tra i sem terra brasiliani o in Bolivia e in Ecuador dove la pacha mama (terra madre) ha il suo riferimento, sia pure solo formale, nelle recenti costituzioni della Bolivia e dell’Ecuador.
6. Eppure, se riuscissimo a spogliarci di certe incrostazioni ideologiche e concettuali, ci renderemmo conto anche noi che la terra è bene comune. La terra esprime utilità che corrispondono a valori tutelati costituzionalmente e che pertanto devono essere salvaguardate per permetterne la fruizione dell’intera collettività e soprattutto delle future generazioni: dal paesaggio all’ambiente, dalla salute all’alimentazione, dalle formazioni sociali al territorio, dalla cultura al lavoro. Sono utilità che possiamo qualificare come fondamentali proprio perché connesse a diritti fondamentali tutelati dalla nostra Costituzione: come le utilità che si riferiscono alla naturale fertilità della terra e perciò alla genuinità dei prodotti agricoli e che si connettono al diritto alla salute (art. 32 cost.); o quelle che sono legate alla morfologia preesistente e che richiamano sia il diritto al paesaggio (art. 9) sia, grazie al mantenimento del manto vegetale, il diritto all’ambiente salubre (art. 32); o quelle che discendono dalla idoneità della terra a essere lavorata e che pertanto consentono l’attuazione del diritto al lavoro (artt. 35 e 44); o quelle che derivano dal fatto che la terra è elemento fondante della cultura e delle tradizioni delle popolazioni insediate (artt. 2 e 9).
Del resto, quando nelle elencazioni si fa riferimento a beni comuni come i boschi e le acque, le alte montagne e i parchi, il paesaggio e il territorio, il cibo e le produzioni tipiche, la terra è sempre presente nella sua coinvolgente fisicità: contiene l’acqua, fonda il paesaggio, è elemento costitutivo del territorio, garantisce tipicità e genuinità alimentare. In ultima analisi è un bene comune che nella sua materialità rappresenta la base fondamentale di altri beni comuni.
7. La terra è bene comune e nello stesso tempo bene che forma oggetto di diritti escludenti. Si è detto che le due situazioni operano su piani diversi e perciò non entrano in contraddizione. Come il bosco “in quanto tale” è bene comune a prescindere dai diritti escludenti che su di esso – nella sua totalità o nelle sue porzioni – possano vantare singoli titolari; come un’area naturale protetta “in quanto tale” è bene comune a prescindere dai diritti in essa insistenti; come l’alta montagna “in quanto tale” è bene comune anche se su di essa gravano diritti di singoli o
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di comunità: così la terra “in quanto tale” è bene comune anche se le sue porzioni possono essere oggetto di proprietà o di altri diritti escludenti.
“In quanto tale”: questa tautologia nasconde la definizione, ma coglie esigenze profonde perché discende dalla percezione dell’interezza – bosco, area naturale protetta, alta montagna, terra – che è diversa dalla percezione dei singoli elementi o delle singole porzioni..
La terra oggetto di diritti è definita, picchettata, conquistata: questi predicati non si addicono alla terra bene comune. La terra oggetto di diritti rileva fondamentalmente sul piano del mercato; anche quelle terre che per loro natura non sarebbero commerciabili possono, con apposito intervento legislativo, mutare natura, come dimostrano l’annosa vicenda della liquidazione delle proprietà collettive o le recenti proposte di legge che mirano a mettere in commercio perfino i beni del demanio naturale. La terra bene comune rileva invece a un livello diverso dal mercato perché è sintesi di valori, economici e soprattutto ideali, che rinviano a diritti fondamentali. La terra oggetto di diritti può essere trasferita agli eredi del proprietario defunto; la terra bene comune deve essere conservata e custodita perché gli eredi di tutti – le future generazioni – ne possano godere.
8. La terra oggetto di diritti esclude; la terra bene comune include, è aperta alla fruizione di tutti e pertanto pone come centrale la questione dell’accesso: tutti hanno diritto di accedere alle utilità fondamentali, cioè a quelle che si riconducono a valori costituzionali. Perché il diritto di accesso a tali utilità non resti mera affermazione occorre, come si è già visto per i beni comuni in generale, che la terra venga conservata nella sua integrità e che l’interesse della collettività alla conservazione abbia rilevanza giuridica, venga cioè tutelato. Terra bene comune significa pertanto riconoscere alla collettività anche il diritto alla conservazione dell’integrità di essa.
Si accende una nuova luce sullo stesso contenuto della proprietà della terra, sul significato e di conseguenza sulla portata dell’appartenenza. E’ una luce che nasce dal percorso a contrario che in precedenza abbiamo individuato. Se la terra nelle sue utilità fondamentali è aperta alla fruizione dell’intera collettività il proprietario non può fare un uso che incida sull’integrità della terra e comunque tale da negare quella fruizione: in altri termini l’incisione dell’integrità della terra non rientra nel contenuto del diritto. Così, ad esempio, il proprietario non può escludere la naturale fecondità della terra attraverso l’edificazione, l’uso eccessivo dei fertilizzanti chimici, la costruzione di discariche o di bacini idroelettrici; non può modificare la morfologia del terreno riempiendo fossi, spianando colline, impiantando campi eolici o fotovoltaici; non può lasciare incolta la terra laddove vi sia fame di lavoro agricolo. Tutte queste facoltà non rientrano nel contenuto del suo diritto; affermarne la legittimità significherebbe negare alla terra la natura di bene comune e perciò alla collettività il potere di fruire e di godere di essa.
Le conseguenze sono di straordinaria importanza sia sul piano teorico che su quello operativo e pongono in crisi orientamenti culturali consolidati: poiché il potere di incidere sulla integrità della terra non rientra nel contenuto della proprietà in quanto confligge con il diritto di tutti alla fruizione e al godimento del bene comune, perdono vigore la teoria del contenuto minimo della proprietà e in particolare la concezione delloius aedificandi come facoltà inerente alla proprietà; si riapre la possibilità di riprendere la strada verso una nuova efficace legge sui suoli.
9. Affermare che la terra è bene comune e che perciò deve esserne conservata l’integrità non significa pretendere di arrestare la corrente della storia che questa si muove anche sotto la spinta del dinamismo del rapporto città-campagna e cioè del rapporto tra le popolazioni e la terra in cui esse operano; significa invece affermare che tale dinamismo non può più essere condizionato dalle logiche proprietarie perché sono logiche di esclusione e quindi di violenza.
Si apre qui la grande decisiva questione della partecipazione e perciò della democrazia. Solo assicurando la partecipazione effettiva, e perciò informata, della collettività alle scelte che riguardano l’assetto della terra e le sue trasformazione sarà possibile, attraverso procedure
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concessorie adeguate, incidere sulla sua stessa integrità senza violarne la natura di bene comune. Il fatto che milioni di persone in tutto il mondo, riunite in associazioni, comitati e altre variegate forme aggregative lottano per difendere l’integrità della propria terra contro aggres sioni, speculazioni, scelte di cui non conoscono i reali motivi ispiratori dimostra concretamente quanto sia diffuso il senso della terra bene comune e nello stesso tempo l’esigenza di partecipare alle vicende che la riguardano e che possono certamente essere anche modificative.
10. La consapevolezza della natura di bene comune della terra incrocia un’ultima questione che nel presente è fondamentale e che si può presentare con questo interrogativo: sul piano giuridico tale natura è ius condendum, cioè aspirazione che esige nuovi ancoraggi normativi, o ius conditum che, anche se non discende da norme specifiche, può comunque trarsi dai principi generali quali si presentano nell’attuale complesso giuoco delle fonti ordinamentali (interne, comunitarie, internazionali)? La questione è particolarmente ardua e si pone anche per gli altri beni comuni, per alcuni dei quali – si pensi all’acqua – riceve soluzioni travagliate e non univoche.
La questione chiama in causa l’interprete con le sue capacità argomentative e soprattutto con il suo bagaglio culturale e il suo convincimento ideale: inevitabilmente la risposta all’interrogativo sarà nello stesso tempo tecnica e ideologica. Dalle precedenti considerazioni si può però ricavare con sufficiente certezza un dato importante: la natura di bene comune che riveste la terra considerata nella sua materialità ha rilevanza costituzionale. Se poi questo elemento rappresenti l’inizio di un percorso interpretativo in senso evolutivo fondato sull’immediata precettività delle norme costituzionali che potrà portare a risultati concreti anche nell’attuale quadro normativo o se invece costituisca la giustificazione di un apposito intervento del legislatore – comunque auspicabile per offrire comunque un solido ancoraggio all’interprete e per definire con precisione il regime giuridico della terra e degli altri beni comuni – dipenderà da molteplici fattori: la spinta dei movimenti, l’impegno dei giuristi, la consapevolezza sociale del valore della terra, la forza e la drammaticità delle cose.
Carlo Alberto Graziani 14.11.2011